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Attribuzione dei diritti di cui all'art. 540 2 comma c.c. in favore del coniuge superstite separato

Aggiornamento: 5 ott 2020



Cassazione civile, sez. II, 22 ottobre 2014, n. 22456 - Pres. Oddo - Rel. Bucciante


Il diritto reale di abitazione, riservato per legge al coniuge superstite ai sensi dell'art. 540 c.c., ha ad oggetto l'immobile che in concreto era adibito a residenza familiare in cui entrambi i coniugi vivevano insieme.

Tale norma tutela non tanto l'"interesse economico" del coniuge superstite di disporre di un alloggio, quanto l'"interesse morale" legato alla conservazione dei rapporti affettivi e consuetudinari con la casa familiare. Pertanto il coniuge separato del de cuius che non abitava più la casa familiare non ha il diritto di abitazione sulla stessa.


ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

Conforme: Cass. Civ., sez. II, 12 giugno 2014, n. 13407.

Difforme: Non constano precedenti difformi.


Svolgimento del processo

Con sentenza del 13 settembre 2004 il Tribunale di Roma respinse la domanda proposta da L.R., diretta ad ottenere la


condanna di suo padre E.R. al pagamento di una indennità per il mancato godimento, da parte dell'attrice, di un appartamento di cui era stata spossessata dal convenuto pur essendone usufruttuaria per la quota di metà, per successione testamentaria alla madre M.M., deceduta il 21 dicembre 1998. A tale decisione il giudice di primo grado pervenne osservando che ad E.R. - il quale aveva esercitato con esito positivo azione di riduzione delle disposizioni testamentarie della moglie, come legittimario totalmente pretermesso - competeva, a norma degli art. 540 e 548 c.c., il diritto di abitazione sull'immobile in questione, che aveva costituito la casa familiare fino alla separazione personale dei coniugi, intervenuta consensualmente nel giugno del 1993.

Impugnata dalla soccombente, la decisione è stata confermata dalla Corte d'appello di Roma, che con sentenza del 4 luglio 2008 ha rigettato il gravame, ritenendo che non fosse stata adeguatamente censurata la pronuncia di primo grado; è stata altresì disattesa, in quanto non proposta con impugnazione incidentale, la domanda dell'appellato di accertamento dell'inclusione, nell'oggetto del suo diritto di abitazione, del box auto di pertinenza dell'appartamento suddetto.

L.R. ha proposto ricorso per cassazione, in base ad un motivo E.R. si è costituito con controricorso, formulando a sua volta un motivo di impugnazione in via incidentale, cui L.R. ha opposto un proprio controricorso.

Sono state presentate memorie dall'una e dall'altra parte.


MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il motivo addotto a sostegno del ricorso principale L.R. lamenta che la Corte d'appello, ritenendo che la sentenza di primo grado non fosse stata impugnata adeguatamente sul punto, ha eluso la questione che le era stata posta, invece, in maniera specifica e puntuale: se E.R. fosse titolare del diritto di abitazione sull'appartamento oggetto della controversia, pur se al momento della morte di M.M. l'immobile da oltre cinque anni non era più la loro casa familiare, essendosene il marito allontanato fin dall'epoca della loro separazione.

La censura è fondata.

Dagli atti di causa - che questa Corte può direttamente prendere in esame, stante il carattere di error in procedendo del vizio denunciato: cfr. Cass. 10 settembre 2012 n. 15071 - risulta che L.R., nell'adire la Corte d'appello, aveva rivolto alla sentenza del Tribunale critiche precise e pertinenti, sostenendo la tesi che il diritto riservato dall'art. 540 c.c. non compete al coniuge superstite che al momento dell'apertura della successione, a seguito di separazione personale, non abita più in quella che era stata la casa familiare, poiché la norma intende assicurare una continuità di residenza che in tal caso è stata ormai interrotta.

Questo assunto viene ora ribadito da L.R. che conclude l'illustrazione del motivo posto a base del suo ricorso formulando il quesito: "se sia conforme al disposto dell'art. 540 c.c. l'attribuzione del diritto di abitazione al coniuge superstite quando lo stesso sia legalmente separato e non più convivente nella casa oggetto della disposizione successoria".

La questione, in tali precisi termini è stata affrontata per la prima volta nella giurisprudenza di legittimità, per quanto consta, solo recentissimamente, con Cass. 12 giugno 2014 n. 13407 che l'ha risolta nel senso propugnato da L.R.: si è ritenuto, essenzialmente, che "il diritto reale di abitazione, riservato per legge al coniuge superstite..., ha ad oggetto la casa coniugale, ossia l'immobile che in concreto era adibito a residenza familiare" e "si identifica con l'immobile in cui i coniugi - secondo la loro determinazione convenzionale, assunta in base alle esigenze di entrambi - vivevano insieme stabilmente, organizzandovi la vita domestica del gruppo familiare"; che "le espressioni usate dall'art. 540, comma secondo... non lasciano al riguardo spazi a dubbi interpretativi", riferendosi "alla casa che dai coniugi era stata adibita a residenza familiare (dove il concetto di residenza, di cui all'art. 43, comma secondo, c.c., richiama la effettività della dimora abituale nella causa coniugale)"; che "la ratio della suddetta disposizione è da rinvenire non tanto nella tutela dell'interesse economico del coniuge superstite di disporre di un alloggio, quanto dell'interesse morale legato alla conservazione dei rapporti affettivi e consuetudinari con la casa familiare", quali "la conservazione della memoria del coniuge scomparso, delle relazioni sociali e degli status symbols goduti durante il matrimonio"; che "l'art. 548 primo comma c.c. equipara, quanto ai diritti successori attribuiti dalla legge, il coniuge separato senza addebito al coniuge non separato", ma "in caso di separazione personale dei coniugi e di cessazione della convivenza, l'impossibilità di individuare una casa adibita a residenza familiare (fa) venire meno il presupposto oggettivo richiesto ai fini dell'attribuzione dei diritti in parola", sicché "l'applicabilità della norma in esame è condizionata all'effettiva esistenza, al momento dell'apertura della successione, di una casa adibita ad abitazione familiare, evenienza che non ricorre allorché, a seguito della separazione personale, sia cessato lo stato di convivenza tra i coniugi".

Alla luce di questi principi - dai quali non vi è ragione di discostarsi, stante la loro coerenza con la lettera e lo scopo della norma da cui sono stati tratti - il ricorso principale deve essere accolto.

Ne consegue altresì, per le stesse assorbenti ragioni, il rigetto del ricorso incidentale, con il quale E.R. si duole del mancato accoglimento della propria domanda di accertamento dell'inclusione, nell'oggetto del preteso suo diritto di abitazione nell'appartamento in questione, del box auto di pertinenza.

Accolto pertanto il ricorso principale e rigettato l'incidentale, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio ad altro giudice, che si designa in una diversa sezione della Corte d'appello di Roma, cui viene anche rimessa la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.


D I S P O S I T I V O

La Corte accoglie il ricorso principale; rigetta l'incidentale; cassa la sentenza impugnata; rinvia la causa ad altra sezione della Corte d'appello di Roma, cui rimette anche la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

Roma, 19 giugno 2014


IL COMMENTO

di Vincenzo Terracciano

A breve distanza temporale dal precedente intervento sul punto (Cass. n. 13407 del 12 giugno 2014), la Suprema Corte ha l'occasione di riaffrontare la questione relativa alla riconoscibilità dei diritti successori ex art. 540, comma secondo in favore del coniuge superstite separato legalmente, conformandosi alla su citata decisione.

In particolare la Corte, attraverso un ampio percorso argomentativo che ha consentito di affrontare molti dei temi e delle problematiche sviluppatesi in materia, delinea quelli che sono i presupposti alla base della riconoscibilità dei suddetti diritti successori, giungendo quindi a negarli in capo al coniuge superstite legalmente separato e non più convivente nella casa familiare.

La suddetta pronuncia, in ragione anche della precedente posizione conforme alla quale la stessa fa numerosi e puntuali rinvii, sembrerebbe aver posto un punto definitivo su una questione giuridica di intramontabile interesse pratico e scientifico, così superando decenni di incertezze dovute ad autorevoli e contrastanti interpretazioni dottrino-giurisprudenziali.


1. La fattispecie oggetto del giudizio


La ricorrente L.R., in forza di successione testamentaria della madre M.M., deceduta il 21 dicembre 1998, aveva acquistato il diritto di usufrutto, per la quota pari ad un mezzo (di metà), su quella che era stata la casa familiare. La parte attrice veniva in seguito spossessata del suddetto appartamento da parte del convenuto E.R., padre della ricorrente, a seguito del vittorioso esperimento dell'azione di riduzione da parte dello stesso, quale legittimario totalmente pretermesso.

La suddetta L.R., quindi, citava in giudizio il padre E.R. per ottenere la condanna dello stesso al pagamento di una indennità per il mancato godimento del citato cespite, oggetto del giudizio.

Il Tribunale di Roma, con sentenza del 13 settembre 2004, respingeva la suddetta richiesta osservando che al convenuto E.R., in quanto coniuge superstite, " competeva, a norma degli art. 540 e 548 c.c., il diritto di abitazione sull'immobile in questione, avendo lo stesso costituito la casa familiare fino alla separazione personale dei coniugi, intervenuta consensualmente nel giugno del 1993".

La soccombente impugnava la decisione con esito sfavorevole, giacché la Corte d'appello di Roma con sentenza del 4 luglio 2008 rigettava il gravame, così confermando la pronuncia di primo grado.

La ricorrente L.R., quindi, proponeva ricorso per cassazione lamentando l'elusione da parte della Corte d'appello della questione che le era stata posta in maniera specifica e puntuale, e precisamente: "se E.R. fosse titolare del diritto di abitazione sull'appartamento oggetto della controversia, pur se al momento della morte di M.M. l'immobile da oltre cinque anni non era più la loro casa familiare, essendosene il marito allontanato fin dall'epoca della loro separazione".

Nell'adire la Suprema Corte L.R. ribadiva l'assunto di cui sopra e concludeva l'illustrazione del motivo di ricorso formulando il seguente quesito: "Se sia conforme al disposto dell'art. 540 c.c. l'attribuzione del diritto di abitazione al coniuge superstite quando lo stesso sia legalmente separato e non più convivente nella casa oggetto della disposizione successoria".

Il Giudice di Legittimità, quindi, richiamando i principi già esposti dalla Cass. civile, sez. II del 12 giugno 2014 n. 13407 e manifestando l'intento di non voler discostarsene "stante la loro coerenza con la lettera e lo scopo della norma da cui sono stati tratti", con la pronuncia in esame accoglieva il ricorso principale, rigettava l'incidentale, cassava la sentenza impugnata e rinviava la causa ad altra sezione della Corte d'appello di Roma, cui rimetteva anche la pronuncia delle spese del giudizio di legittimità.


2. Inquadramento della questione


I diritti successori in oggetto sono disciplinati dall'art. 540, comma secondo c.c., così come riformato dall'art 176 della Lg n. 151 del 1975; il suddetto articolo, nell'individuare il soggetto al quale sono riservati i diritti di cui sopra, fa genericamente riferimento al concetto di "coniuge". Rinviando ad altra sede la trattazione relativa alle ulteriori questioni interpretative riconnesse alla norma in oggetto ed in particolare a quelli che sono i cd. presupposti oggettivi, occorre qui soffermarsi su quello che è il cd. presupposto soggettivo fissato dalla norma e su quelle che sono le problematiche ad esso riconnesse.

E' quindi necessaria, al momento dell'apertura della successione del coniuge titolare del diritto di proprietà (esclusivo o parziale), la sussistenza di un valido rapporto di matrimonio tra il coniuge premorto e quello superstite.

Da ciò se ne è sempre e pacificamente desunto la non riconoscibilità dei suddetti diritti in capo al coniuge divorziato; infatti, ai sensi degli art. 1 e 10 della Lg. 898/1970 , e purché la relativa sentenza sia già passata in giudicato al momento del decesso del coniuge premorto, il divorzio comporta un effetto estintivo, ma non retroattivo, su tutti i rapporti derivanti dal matrimonio stesso. (facendo, in particolare, perdere conseguentemente la qualità di "coniuge").

Del pari dicasi, secondo l'interpretazione comune, per l'ipotesi in cui all'apertura della successione sia già passata in giudicato la pronuncia di nullità del matrimonio ai sensi degli art. 117 e ss. del c.c., riconoscendo l'ordinamento in via eccezionale i diritti successori di cui all'art. 540, commi primo e secondo, al cd. "coniuge putativo", di cui all'art. 128 c.c., al solo ricorrere dei presupposti di cui all'art. 584 comma primo del c.c.5.

Ancora più drastiche sono le conclusioni nel caso di pronuncia di inesistenza del matrimonio: in tale ipotesi, infatti, sia che la pronuncia intervenga prima dell'apertura della successione sia che intervenga dopo tale momento, non vi è spazio, stante la maggiore gravità dei vizi, per la produzione degli effetti del matrimonio cd. "putativo" con la conseguenza che il "coniuge" superstite non potrà vedersi attribuiti, in nessun caso, né i diritti successori di cui al 540, comma primo né tanto meno quelli di cui al comma secondo.

La questione inizia a presentare profili di problematicità allorquando si sposti l'attenzione sulla categoria dei coniugi separati e questo giacché la separazione legale (consensuale o giudiziale che sia) ex art. 150 e ss. c.c., non incide sull'atto di matrimonio , che infatti non viene né invalidato né sciolto, ma ne sospende solo taluni effetti - tanto di carattere patrimoniale quanto personale - sollevando i coniugi, in particolare per quel che maggiormente interessa ai fini del presente studio, dall'obbligo di coabitazione di cui all'art. 143 c.c.

Con riguardo a tale ultima categoria è lo stesso Legislatore ad operare una distinzione tra la separazione giudiziale pronunciata senza o con addebito, di cui all'art. 151, commi primo e secondo c.c.

Sebbene infatti in entrambe le ipotesi non vi sia, come sopra visto, lo scioglimento del rapporto di coniugio, ai fini del trattamento successorio, ex artt. 548, comma primo e 585, comma primo, c.c. solo il coniuge cui non sia stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato può vedersi riconosciuti gli stessi diritti successori del coniuge non separato6; viceversa, ai sensi degli artt. 548, comma secondo e 585, comma secondo c.c.7, quello cui sia stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato ha diritto soltanto ad un assegno vitalizio se, al momento dell'apertura della successione, godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto.

Alla luce di tale quadro normativo, così come testé delineato, la dottrina e la giurisprudenza, ai fini della trattazione in oggetto, hanno concentrato le proprie attenzioni sulla figura del coniuge separato senza addebito.

In particolare il dibattito si è incentrato sulla possibilità di attribuire anche al suddetto coniuge i diritti di cui all'art. 540, comma secondo, stante la laconicità del testo normativo che opera un generico rinvio ai diritti successori spettanti al coniuge non separato.


3. Le posizioni espresse dalla dottrina e dalla giurisprudenza

Secondo un primo orientamento, sulla base del dato normativo, i diritti in oggetto andrebbero riconosciuti anche in favore del coniuge separato senza addebito, indipendentemente da una prosecuzione della coabitazione tra i coniugi stessi; in tal senso sembrerebbe deporre il testo degli artt. 548, comma primo e 585, comma primo c.c. che come detto, senza limitazione alcuna, riconoscono al nostro gli stessi diritti successori spettanti in favore del coniuge non separato.

Come osservatosi in dottrina8 la portata del suddetto testo normativo non sembrerebbe potersi restringere sulla base della sua ratio, pur ammesso che effettivamente il legislatore, nel porla, abbia presupposto che il coniuge, all'epoca dell'apertura della successione, risieda in una casa di proprietà del defunto o comune, in convivenza con lo stesso.

Potrebbe, anzi, affermarsi che la disciplina positiva dia dimostrazione che la tutela dell'interesse morale del coniuge superstite, a conservare la memoria dello scomparso fra le mura domestiche in cui i coniugi sono vissuti in comunione di vita fino allo scioglimento del matrimonio, sia solo una delle funzioni assegnate alla riserva ex lege del diritto di abitazione.

Tale orientamento non ritiene infatti necessario, ai fini della individuazione della casa familiare, prendere in considerazione, esclusivamente, lo status quo verificatosi al momento dell'apertura della successione; i diritti in oggetto andrebbero quindi ad insistere su quella che era stata, sebbene in un'epoca antecedente all'apertura della successione, l'ultima residenza familiare comune e sui mobili che la corredavano. Tale ricostruzione presenta il pregio di apparire come quella che, soprattutto in concreto, consenta la più ampia equiparazione del coniuge separato senza addebito al coniuge non separato, anche per quanto concerne i diritti in esame, così valorizzando a pieno la lettera dei sopra citati articoli 548 e 585 c.c..

Ad avviso di un secondo orientamento, la condizione di separazione tra i coniugi determinerebbe, conseguentemente ed inevitabilmente, il venir meno di quel fondamentale requisito oggettivo richiesto dalla legge per il sorgere e l'attribuzione dei diritti in oggetto, ovverosia l'effettiva esistenza di una casa familiare (impossibile da individuarsi nella fattispecie). Tali autori sottolineano come infatti elemento indispensabile della suddetta fattispecie legale sia la destinazione effettiva ed attuale dell'immobile, e dei mobili che lo corredano, a residenza familiare e che il detto requisito venga meno se, al momento dell'apertura della successione, i coniugi avessero cessato di convivere: rebus sic stantibus, il coniuge superstite separato non avrebbe alcuna possibilità di invocare la tutela alla continuità di uno stato di fatto che, in relazione all'alloggio, era già mutato al momento dell'apertura della successione.

Una volta allentatasi o addirittura conclusasi la comunione spirituale di vita tra i coniugi, e ridottasi quella materiale ad un mero obbligo di contribuzione al mantenimento o agli alimenti, la casa perderebbe la sua qualità originaria di luogo destinato all'attuazione dell'indirizzo familiare, quand'anche i coniugi, separatamente o insieme, continuassero ad abitarla o vi transitassero temporaneamente per far visita ai figli.

In una posizione intermedia si pongono quegli orientamenti i quali, pur non negando in radice l'attribuibilità dei suddetti diritti, precisano che occorra, in concreto, accertare lo stato di fatto venutosi a creare a seguito della separazione, concludendo che conseguentemente i diritti in esame non potrebbero essere attribuiti nell'ipotesi in cui, a seguito della separazione, non sia più rinvenibile una casa adibita a residenza familiare.

All'interno di tale corrente dottrinaria si distinguono tre principali orientamenti che si dividono e si confrontano su quali siano i requisiti minimi da rinvenirsi al fine della configurabilità tanto di una "casa adibita a residenza familiare", quanto dei "mobili" che la corredano.

Secondo una prima tesi la riconoscibilità dei diritti in oggetto necessiterebbe di una convivenza tra i coniugi, ancorché separati, giacché viceversa apparirebbe alquanto difficoltosa, se non impossibile, l'individuazione di una casa adibita a residenza familiare allorché, al momento dell'apertura della successione, i coniugi vivano separati.

Tale orientamento si basa sulla considerazione, di fatto e di diritto, secondo la quale non sempre la separazione precluderebbe l'esistenza di una casa di comune residenza, intesa come casa nella quale i coniugi coabitino, al momento dell'apertura della successione; identificando quindi la casa familiare con quella della semplice coabitazione, si può certamente affermare che sia possibile comunque rinvenire uno spiraglio, seppur angusto, per l'insorgere di tali diritti anche in capo al coniuge separato.

Ad avviso del secondo orientamento, invece, sarebbe possibile la riconoscibilità di tali diritti in capo al coniuge superstite quando sulla casa "si concentri l'aspettativa di una possibile ripresa della convivenza, perché almeno uno dei coniugi, si tratti del superstite o di quello premorto, è rimasto ad abitarla fino all'apertura della successione".

Conseguentemente, i diritti in oggetto non competono al coniuge separato superstite qualora entrambi i coniugi abbiano abbandonato l'originaria residenza comune poiché, in tale ipotesi ed a tali condizioni, non potrebbe configurarsi il presupposto della residenza familiare.

Tale ricostruzione viene criticata da quanti negano che sia indifferente l'identità del coniuge separato che continui ad abitare nella residenza stessa: si potrebbe infatti giungere ad un risultato che apparirebbe quanto meno paradossale, ossia riconoscere il diritto a "proseguire" ad abitare nella casa familiare in favore di quel coniuge che al momento dell'apertura della successione già più non vi viveva .

Ad avviso di tale ultima corrente dottrinaria, infatti, sarebbe possibile riconoscere l'insorgere dei diritti in esame in favore del solo coniuge separato superstite il quale, dopo la separazione, abbia legittimamente continuato a permanere nella abitazione già adibita a residenza familiare perché rimastovi di fatto, o in forza degli accordi di separazione con l'altro coniuge o in forza del provvedimento di assegnazione della casa stessa ex art. 337-sexies c.c.

Come attentamente osservato "questa tesi è apprezzabile, perché tiene nel giusto conto la ratio, cui è ispirata la previsione dei due legati ex lege: assicurare al soggetto legato da vincolo di coniugio con il defunto la conservazione delle consuetudini abitative matrimoniali, purché esse risultino attuali e non neglette".


4. La posizione assunta dalla Suprema Corte


La Cassazione, non discostandosi dai principi già espressi dalla stessa Corte con pronuncia n. 13407/2014 alla quale fa numerosi rinvii, analizza la fattispecie in oggetto ed affronta, preliminarmente, problematiche che, logicamente antecedenti alla questione sottoposta alla sua attenzione, risultano riconnesse alla risoluzione della controversia stessa.


Soffermandosi sul diritto reale d'abitazione, riservato per legge al coniuge superstite, chiarisce che lo stesso ha ad oggetto la casa coniugale, ossia l'immobile che in concreto era adibito a residenza familiare, e che si identifica con l'immobile in cui i coniugi -secondo la loro determinazione convenzionale, assunta in base alle esigenze di entrambi- vivevano insieme stabilmente, organizzandovi la vita domestica del gruppo familiare; sul punto ancora precisa che le espressioni usate dall'art. 540, comma secondo, non lasciano al riguardo spazi a dubbi interpretativi riferendosi alla casa che dai coniugi era stata adibita a residenza familiare (dove il concetto di residenza, di cui all'art. 43, comma secondo, c.c., richiama la effettività della dimora abituale nella casa coniugale).

Nel suo excursus argomentativo la Corte chiarisce altresì la ratio della disposizione contenuta nell'art. 540, comma secondo, rinvenendola non tanto nella tutela dell'interesse economico del coniuge superstite di disporre di un alloggio, quanto dell'interesse morale legato alla conservazione dei rapporti affettivi e consuetudinari con la casa familiare quali la conservazione della memoria del coniuge scomparso, delle relazioni sociali e degli status symbols goduti durante il matrimonio.

Dopo aver affrontato le questioni preliminari relative alla natura, alla ratio ed all'ampiezza del diritto di abitazione in esame, la Corte rileva che l'art. 548, primo comma c.c., equipara, quanto ai diritti successori attribuiti dalla legge, il coniuge separato senza addebito al coniuge non separato, precisando tuttavia che in caso di separazione personale dei coniugi e di cessazione della convivenza, l'impossibilità di individuare una casa adibita a residenza familiare fa venire meno il presupposto oggettivo richiesto ai fini dell'attribuzione dei diritti in parola.

Conseguentemente, giacché per le ragioni sopra esposte i diritti di cui all'art. 540, comma secondo, possono insistere esclusivamente sull'immobile concretamente adibito a residenza familiare, non solo e non tanto prima, ma soprattutto alla morte del de cuius, la Corte conclude statuendo che l'applicabilità della norma in esame è condizionata all'effettiva esistenza, al momento dell'apertura della successione, di una casa adibita ad abitazione familiare, evenienza che non ricorre allorché, a seguito della separazione personale, sia cessato lo stato di convivenza tra i coniugi.

Nella fattispecie concreta esaminata, quindi, alla luce delle conclusioni cui giunge e dei principi enucleati, la Corte, prendendo atto che quella che un tempo era stata la residenza familiare aveva ormai perso la sua destinazione originaria, a causa dell'allontanamento del coniuge superstite fin dall'epoca della separazione coniugale, accoglie il ricorso presentato dalla attrice e rinvia la causa ad altra sezione della Corte d'appello di Roma.


5. Considerazioni conclusive


Coniugi legalmente separati, senza addebito e conviventi

Con la sentenza in commento la Suprema Corte, di fatto, discostandosi dagli orientamenti dottrinali più estensivi di cui sopra, restringe le ipotesi in cui è possibile che si verifichino le condizioni per l'insorgere dei diritti di cui all'art. 540, comma secondo, in favore del coniuge superstite separato senza addebito come dimostrato dal fatto che, tendenzialmente per il passato, è sempre risultato assai raro che i coniugi legalmente separati abbiano coabitato, decidendo di vivere come "separati in casa".

Occorre preliminarmente precisare che la fattispecie astratta, così come pretesa dalla Corte di Cassazione, in una sua ideale collocazione sistematico-spaziale, costituisce una "terra di mezzo" tra la condizione di coniugio tout court e l'istituto della riconciliazione: non più coniugi a tutti gli effetti ma non già riconciliati.

L'ammissibilità di una fattispecie di tal fatta trova conferma nelle numerose pronunce le quali, individuando quei comportamenti tra i coniugi che risultino essere ugualmente compatibili con lo stato di separazione, chiariscono che, sebbene ai fini della prova della riconciliazione debba attribuirsi prevalente valore, piuttosto che ad elementi psicologici e soggettivi, a quelli esteriori, oggettivamente diretti a dimostrare la volontà dei coniugi di ripristinare la comunione di vita, quali la ripresa della convivenza e le sue modalità, la mera ripresa della coabitazione non è di per se incompatibile con il perdurare dello stato di separazione giacché l'interruzione della separazione legale può ravvisarsi solo quando alla rinnovata convivenza materiale si aggiunga la ripresa della comunione spirituale tra i coniugi.

Perché si abbia riconciliazione per fatti concludenti, di cui all'art. 157, comma primo del c.c., è infatti necessario il ripristino del così detto consortium vitae che si ha solo attraverso la restaurazione della comunione sia materiale che spirituale tra i coniugi.

La comunione di vita tra i coniugi dovrebbe consistere in un comportamento che dimostri l'esistenza, da un punto di vista materiale, della convivenza caratterizzata da una certa organizzazione domestica comune, dal reciproco aiuto personale e, normalmente, da rapporti sessuali nonché, da un punto di vista spirituale, dalla cd. affectio maritalis consistente nella disposizione a riservare al coniuge la posizione di esclusivo compagno di vita e a rispondere dei principali doveri coniugali, anche quando la solidarietà esiga sacrificio.

Ad esemplificazione della casistica di questa fattispecie particolare e residuale possono essere addotti taluni esempi che le dinamiche sociali quotidianamente sottopongono alla nostra attenzione:

- coabitazione nella casa familiare, anche in assenza di un provvedimento giudiziario o prescindendo dallo stesso, da parte di coppie legalmente separate, e quindi esenti ex art. 156 c.c.incompatibile con il perdurare dello stato di separazione giacché l'interruzione della separazione legale può ravvisarsi solo quando alla rinnovata convivenza materiale si aggiunga la ripresa della comunione spirituale tra i coniugi.

Perché si abbia riconciliazione per fatti concludenti, di cui all'art. 157, comma primo del c.c., è infatti necessario il ripristino del così detto consortium vitae che si ha solo attraverso la restaurazione della comunione sia materiale che spirituale tra i coniugi.

La comunione di vita tra i coniugi dovrebbe consistere in un comportamento che dimostri l'esistenza, da un punto di vista materiale, della convivenza caratterizzata da una certa organizzazione domestica comune, dal reciproco aiuto personale e, normalmente, da rapporti sessuali nonché, da un punto di vista spirituale, dalla cd. affectio maritalis consistente nella disposizione a riservare al coniuge la posizione di esclusivo compagno di vita e a rispondere dei principali doveri coniugali, anche quando la solidarietà esiga sacrificio.

Ad esemplificazione della casistica di questa fattispecie particolare e residuale possono essere addotti taluni esempi che le dinamiche sociali quotidianamente sottopongono alla nostra attenzione:

- coabitazione nella casa familiare, anche in assenza di un provvedimento giudiziario o prescindendo dallo stesso, da parte di coppie legalmente separate, e quindi esenti ex art. 156 c.c. dagli obblighi di cui all'art. 143, comma secondo c.c., a causa della crisi degli alloggi o più spesso per l'insufficienza del reddito;

- assegnazione congiunta della casa familiare ad entrambi i genitori a seguito dell'affidamento condiviso della prole: tale fattispecie ricorre in misura sempre più frequente all'indomani della riforma del diritto di famiglia (lg. n. 54 del 8 febbraio 2006) che ha introdotto all'art. 155, comma secondo c.c. (oggi sostituito dall'art. 337-ter c.c. in forza del D.lgs. n. 154 del 28 dicembre 2013) l'istituto dell'affidamento condiviso della prole (che andava così ad aggiungersi a quello dell'affidamento esclusivo). Infatti la stessa Suprema Corte ha in più occasioni affermato il principio secondo il quale sarebbe possibile, ex art. 155 quater c.c. (oggi sostituito dall'art. 337-sexies c.c. in forza del D.lgs. n. 154 del 28 dicembre 2013) anche un'assegnazione congiunta della casa familiare ad entrambi i genitori ove tale soluzione, esperibile in relazione al lieve grado di conflittualità coniugale, agevoli in concreto la condivisione della genitorialità e la conservazione dell'habitat domestico dei figli minori.32 Tali pronunciati, quali figli dei tempi, superano quello che era lo status quo ante alla riforma del diritto di famiglia di cui sopra; in precedenza, infatti, l'affidamento monogenitoriale della prole (quale unica possibilità prevista dall'allora art. 155, comma primo c.c.), comportava tendenzialmente (ai sensi dell'allora art. 155, comma quarto c.c.) l'assegnazione esclusiva della casa coniugale al solo coniuge affidatario con conseguente obbligo di allontanamento dell'altro, così ostacolando la possibilità che ricorresse il presupposto essenziale oggi richiesto dalla Corte per i diritti di cui al 540, comma secondo c.c.: la convivenza tra i coniugi nella casa familiare.


Ratio della norma e spunti di riflessione: conviventi more uxorio e coniugi separati di fatto

Qualche considerazione ulteriore può essere spesa circa la ratio sottesa alla suddetta normativa, così come individuata dalla Suprema Corte; posto che la stessa sia da rinvenire non già in un interesse economico ma piuttosto in uno morale, occorre sottolineare le perplessità legate ad una troppo generica enucleazione dello stesso. La Corte infatti, fa contemporaneamente riferimento tanto alla conservazione di rapporti affettivi, quanto di quelli consuetudinari con la casa familiare, quali la conservazione della memoria del coniuge scomparso, delle relazioni sociali e degli status symbols goduti durante il matrimonio. In particolare, a mio sommesso avviso, la Corte non lascia bene intendere se tali interessi, individuati alla base dei diritti in oggetto, debbano essere considerati autonomi ed indipendenti ovvero inscindibilmente legati tra loro. Il dubbio nasce proprio dalla diversa natura degli interessi enucleati: mentre infatti la conservazione dei rapporti consuetudinari, delle relazioni sociali e degli status symbols sembrerebbero essere tutti volti a soddisfare un interesse personale legato all'individualità del coniuge superstite, inteso uti singulo, gli altri invece, sembrerebbero soddisfare interessi super-individuali dei coniugi in quanto coppia, poiché hanno come oggetto la conservazione dei rapporti affettivi con la casa familiare e la conservazione della memoria del coniuge scomparso.

Orbene, date queste premesse, i dubbi nascono giacché mentre appare verosimile immaginare la perseguibilità degli interessi a carattere individuale, sorge qualche interrogativo sulla concreta attuabilità degli altri. In particolare ci si chiede come sia possibile affidare al coniuge superstite, già legalmente separato, tanto la conservazione dei rapporti affettivi con la casa familiare quanto la conservazione della memoria del coniuge scomparso, dal momento che la loro coabitazione era sorretta da un mero bisogno materiale e non già da una ritrovata affectio maritalis, ormai svanita.

Si pone quindi la seguente alternativa: o tutti gli interessi da perseguire sono succedanei e disgiunti tra loro, ovvero il riferimento agli interessi di natura affettiva rischierebbe di non essere appropriato ed impedirebbe, sulla base della supposta non perseguibilità degli stessi, l'insorgenza e la riconoscibilità dei diritti in oggetto.

A fortiori e provocatoriamente, giacché si è ben consapevoli che l'elemento dirimente tra le fattispecie è costituito dalla presenza di un rapporto di coniugio, si potrebbe giungere ad una paradossale conclusione: se alla base dei diritti in oggetto sono individuati, tra gli altri, quale presupposto la convivenza e quale scopo l'interesse alla conservazione dei rapporti affettivi, non si vede perché dover negare i diritti stessi ai cd. conviventi more uxorio qualora essi, alla premorienza di uno dei due, siano ancora legati da una comunione spirituale oltre che materiale che invece non appartiene, sicuramente, ai coniugi legalmente separati, conviventi ma non riconciliati.

La sentenza in commento costituisce altresì lo spunto per la riapertura di una questione giuridica sulla quale in passato si era acceso un vivo dibattito dottrino - giurisprudenziale: la spettanza dei diritti in oggetto anche in favore dei coniugi separati di fatto.

La risposta a tale quesito passa inevitabilmente attraverso l'esatta qualificazione del concetto di residenza familiare.

Il Legislatore fa riferimento a tale istituto in numerose disposizioni del codice civile (artt. 45, 144, 145, 146 e 540) senza tuttavia darne mai una definizione. Parte più rigorosa della dottrina rinviene un legame tra il concetto di residenza familiare e l'obbligo di coabitazione gravante sui coniugi ai sensi dell'art. 143, comma secondo c.c., definendo quindi la residenza familiare come "il luogo nel quale i coniugi d'accordo convivono". La Corte, nella sentenza in commento, oltre a richiamare il concetto testé esposto, lo implementa richiedendo l'ulteriore presupposto della effettività della dimora abituale nella casa coniugale. Se quindi la residenza familiare è il luogo in cui effettivamente i coniugi convivono, se ne dovrebbe concludere che la stessa non sia configurabile in presenza di una separazione di fatto. Tali conclusioni, peraltro già in passato sostenute da parte della dottrina e della giurisprudenza, non avrebbero certo la pretesa di voler legare alla separazione di fatto delle conseguenze giuridiche, ma piuttosto partirebbero dalla considerazione che la determinazione dei coniugi di non convivere farebbe inevitabilmente venir meno l'oggetto dei diritti in commento.

Tuttavia, posta la coerenza del ragionamento giuridico sulla base dei presupposti fissati dalla Corte stessa, si arriverebbe alla paradossale conclusione di riconoscere ai coniugi legalmente separati che coabitano un trattamento successorio più favorevole rispetto a quello riservato ai coniugi separati solo di fatto.

A conferma di tali perplessità può addursi il contrastante orientamento secondo il quale si è dubitato che la residenza familiare debba essere intesa come identica dimora abituale per entrambi i coniugi ritenendosi invece che essa identifichi il luogo di abitazione dove si svolge la vita comune, senza che ciò vincoli la dimora abituale dei coniugi, ben potendo questi, di comune accordo, determinare l'obbligo di coabitazione in modo tale da lasciar prevalere, per uno o per ciascuno di essi, una diversa e separata dimora. Consegue da tale impostazione, che può ugualmente parlarsi di residenza familiare pure nei casi in cui i coniugi abbiano una diversa residenza. Tale corrente dottrinaria infatti, intende il concetto di coabitazione, di cui all'art. 143, comma secondo c.c., nel senso letterale di abitazione sotto lo stesso tetto, anziché in quello pregnante di convivenza, comunione di vita, comprensivo anche del cd. ius in corpus. La fissazione della residenza "secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia" (art. 144, comma primo c.c.), sembra infatti implicare il contemperamento tra la necessità di una residenza familiare e gli interessi individuali che richiedono di limitare la coabitazione come convivenza sotto lo stesso tetto; il che trova conferma anche nella regola (art. 45, comma primo c.c.) che ammette la possibilità di un domicilio differente per ciascuno dei coniugi.

Alla luce di questa breve analisi, si può osservare come il veloce divenire della società moderna, ancora una volta, metta in crisi istituti giuridici e conseguenti sue applicazioni dottrino - giurisprudenziali che, formatisi in epoche risalenti in cui le relazioni umane avevano connotati sicuramente diversi e meno complessi, oggi risultano incapaci di rispondere alle innumerevoli e sempre nuove fattispecie che la realtà concreta propone.

Resta quindi al Legislatore in primis, e agli operatori giuridici tutti poi, con particolare riferimento alla Suprema Corte, l'arduo compito di sciogliere tutti i dubbi e tutte le perplessità che di volta in volta si presentano alla loro attenzione.



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